Un tramonto venato di rimpianto

Idillio siciliano

Lu su Turi a cavaddu si ni stava
silinziusu cu li so’ pinsiera
e lu suli a manu a manu chi calava
l’ummira allungava a li piliera.

U juiornu già lassava u passu a sira
u riddu cricriava nto vadduni,
si zittieva la zicala supra i pira,
s’accampava u jurnataru u so saccuni.

Attaccata a nu cchiaccu da vardiedda
pi nu’ scappari duranti la via
la crapuzza cu la ciancianiedda
passu passu appriess’u mulu si ni ia.

Silinziusu cu li so’ pinsiera. Quali pensieri? Forse quelli indotti da un lontano rintocco “che paia il giorno pianger che si more” (Purgatorio, VIII, 6). Nel qual caso sarebbero pensieri nostalgici: quelli che suscita inevitabilmente il tramonto quando l’anima s’intenerisce al pensiero di un destino, quello umano, verso un occaso, a differenza del sole, senza ritorno.


Pensieri che nel caso del nostro personaggio hanno anche una caratura valoriale, perché non gli può sfuggire il dato di fatto che la sua generazione ha esaurito il suo tempo e sui crinali al tramonto scorreranno sagome d’altra natura a frammentare la luce del sole calante.

Un personaggio siffatto non può non accendere la vena della nostalgia anche in chi lo guarda dall ’esterno. Specie in chi, lontano dal dramma dello iurnataru, che raccoglie la sacca con i pochi avanzi del suo misero pasto, vede nello spettacolo serale del ritorno dai campi della gente contadina solo il lato estetistico.

E l’incedere verso il tramonto di un personaggio come quello del su Turi, accompagnato dal cricriare ritmico del grillo campestre, che per contrasto richiama a sua volta lo stridio delle cicale nel fuoco del meriggio, non può non toccare la corda della poesia anche nel più prosaico degli osservatori. Specie se sfiora il pensiero l’idea di un domani privo della sua immancabile presenza serotina.

Forse i pensieri del su Turi erano d’altro genere rispetto a quelli di chi ne contemplava il quadretto idilliaco di lui in groppa al mulo, seguito di mala voglia dalla capretta discola al guinzaglio. I pensieri dell’annata deludente, della raccolta probabilmente al disotto del bisogno, della figlia da maritare e della dote da racimolare, o del figlio emigrato nelle lontane Americhe che non dà notizie da un po’ di tempo, o della moglie sofferente.

Tutte cose dell’ieri in cui è collocata la figura del nostro personaggio. Che sono pure cose di oggi, anche se collocate in contesti differenti. Tutte cose che possono offuscare l’idillismo del quadretto e fermare la vena della nostalgia.

Ma questo non andrebbe bene, perché il contesto dei valori che davano senso a un vivere stento e travagliato, quale poteva essere quello dell’agricoltore non tecnologizzato, o dei generici giornalieri col tascapane a tracolla, era certamente rispettabile e tale da dar anche motivazione all’agire. La famiglia innanzitutto, che era quella realtà per cui valeva anche la pena di sopportare le bizze centrifughe della crapuzza, per cui questa e le galline che l’attendevano nella stalla erano l’imprescindibile risorsa per la minima integrazione proteica di un’alimentazione di solito vegetariana.

L’attaccamento alla terra, che non era il mito della “roba” di infausta memoria letteraria, ma amore per l’oggetto basilare della propria dignità in termini di concorso “al progresso materiale o spirituale della società” (cfr. art. 4 della Costituzione). Che poi era l’animus delle lotte contadine del dopoguerra, volte a un frazionamento del latifondo in direzione diversa da quella percorsa dall’ERAS. Un carrozzone burocratico tanto dispendioso quanto inconcludente.

In quest’ottica la nostalgia del mondo del su Turi va acquisendo una condivisone generale quando si constatano le contraddizioni conseguenti ad una industrializzazione dell’agricoltura funzionale al profitto delle multinazionali del cibo; per cui quello di una politica mondiale volta al riequilibrio tra consumi e risorse disponibili, con una lotta efficace alla fame sempre più stringente e diffusa in certe aree geografiche in contrasto con lo spreco di cibo altrove, è senz’altro il maggiore dei problemi del nostro tempo.

Una nostalgia che va oltre il lato puramente estetistico, perché comprende anche l’esigenza di una agricoltura biologica rispettosa dei ritmi propri della natura nella attività produttiva e aliena da forme veneficamente drogate o geneticamente deviate nella coltura degli organismi vegetali. Quell’agricoltura in cui l’elemento umano non sia soverchiato dalla tecnica, ma sia il vero protagonista come nel suo piccolo poteva essere il massaio autonomo alla su Turi.

Un personaggio di questo livello forse non era proprio della nostra zona, vocata più alla pastorizia che alla agricoltura. Ma l’anziano a dorso di mulo con la capretta che andava sbocconcellando il foraggio destinato al suo coinquilino notturno, specie quando si trattava di erba fresca e infiorata come la sulla, era una presenza consueta e non unica sul fare della sera, specie attorno all’abbeveratoio, dove pure la capretta bagnava le labbra appoggiando le zampette anteriori sull’orlo della vasca. Una presenza che richiama un mondo di valori per cui va ricordata con simpatia.

di Giuseppe Terregino

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