Quando si parla del passato del nostro territorio madonita, in prevalenza si fa riferimento a ciò che può valere per un futuro consono allo stile di vita del mondo presente in una logica di globalizzazione.
Del passato vengono apprezzati i monumenti e i reperti archeologici di un certo pregio artistico (che sono tanti e preziosi), le immense risorse paesaggistiche e tutto quanto può valere al fine di potenziare l’attività turistica, la quale viene ritenuta l’unica praticabile con sicura ricaduta su una economia depressa come la nostra. Questo è anche giusto e ragionevole.
Ma qualunque iniziativa è destinata al fallimento se si smarrisce la memoria di quel patrimonio di valori e di regole di comportamento che, pur nelle angustie di una vita grama sul lato materiale, nel passato davano senso al vivere e motivazione all’agire. In virtù dei quali valori gioie e dolori erano sempre vissuti nella speranza e senza eccessiva angoscia. Un mondo ormai sorpassato, è vero.
Ma non tutto da dimenticare se vale la pena – come ne vale la pena – di conservare l’animus della nostra gente nella quotidianità della vita di allora. Che poi è quell’humus dal quale hanno tratto la linfa vitale le eccellenze sul lato umano (quale può essere stato, per esempio, il Padre Sebastiano da Gratteri) che hanno onorato il nostro paese nei diversi campi dell’agire e dei quali è sempre sacrosanta la commemorazione quando – come è avvenuto anche di recente – la si effettua con la dovuta sobria solennità.
Una commemorazione che però manca a quell’umanesimo (per questo detto senza storia) interpretato nella sua secolare vicenda terrena dalla gente umile e talora anche vilipesa che ha calpestato il suolo della nostra terra nel culto di quei valori, quali laboriosità, solidarietà nel segno della fratellanza universale, legami affettivi d’ogni genere, che hanno dato coesione ed espressione di vita vera al contesto sociale e motivazione all’agire, come realizzazione personale nel presente, e, in prospettiva futura, come eredità per le nuove generazioni.
Dall’alba al tramonto l’operare giornaliero aveva un ritmo scandito dai periodici richiami dell’orologio civico e soprattutto dai rintocchi delle campane, che segnalavano le ore canoniche. Richiami e rintocchi che davano il senso di una comunità solidale ancorata non egoisticamente a una realtà soprannaturale assiologicamente connessa alla vita terrena. Non vista come un vagare senza una prospettiva avvenire, ma come tappa di un percorso comunitario segnato da conquiste dell’ingegno umano e da una appagante attualizzazione dello spirito. Nella laboriosità senza risparmio di energie in senso egoistico.
Ciccanninu era l’ora più prossima all’albeggiare. L’ora in cui, secondo il poeta, due fratelli affezionati, Ciccu e Ninu per l’appunto, si alzavano ogni mattina, prima Ciccu e poi Ninu, per iniziare la loro giornata lavorativa. Al richiamo laico dell’orologio, seguiva, ad alba appena iniziata, il rintocco del campanone della Matrice volto ad indicare il riferimento principe della giornata: il Padre Nostro. Questo era l’inizio anche ufficiale della giornata lavorativa, che allora andava proprio dall’alba al tramonto, senza “pausa pranzo”, salvo qualche momento per sbocconcellare un tozzo di pane con poco companatico, spesso di cipolla o di qualche frutto o erba commestibile se si era in campagna.
Il segnale più amato ed anche più atteso, per le ragioni che chiunque può ben intuire, era quello dell’Ave Maria. Sia perché aveva finalmente termine la lunga giornata lavorativa, sia perché era quella l’ora del desinare della gente di campagna, che in quel tempo costituiva la stragrande maggioranza della popolazione.
Un’ora, questa, solennizzata anche nell’Arte, come si può ammirare in diverse opere pittoriche, delle quali ci piace ricordare un quadro della scuola Beato Angelico, ammirevole per l’intensa compenetrazione mistica delle due figure (un uomo e una donna) immerse nella luce tenue del sole calante in aperta campagna, e l’Ave Maria a trasbordo di Giovanni Segantini. L’uno e l’altro pregevoli per la implicita sottolineatura del rafforzamento del legame familiare nell’ora “che volge il disio”, in cui maggiore è il bisogno di conforto e di affetto.
Nel nostro paese la pausa meridiana aveva il suo collettivo incipit sonoro: erano i rintocchi del solito campanone che invitavano alla recita dell’Angelus. Rintocchi che non si perdevano nel vuoto, ma venivano ascoltati e onorati con la recita anche corale in ogni angolo del paese. E questo non era ritualismo bigotto, ma affermazione di principio della sacralità del desinare nell’imprescindibile pausa di riposo durante la quotidiana fatica del vivere. Pausa che purtroppo – come abbiamo detto sopra – non era sempre e in ogni caso riconosciuta, sussistendo remore di natura socioeconomica che penalizzavano le categorie meno abbienti, allora poco o punto protette.
Non meno partecipati erano i periodici richiami settimanali a particolari devozioni: quello della prima ora di notte del lunedì, destinata dalla pietà popolare alla anime del Purgatorio e lo scampanio festoso del giovedì alle due ore di notte (a Du’ uri), che invitava ad onorare il Santissimo Sacramento.
Momenti, questi, in cui veniva rinsaldata la comunione coi trapassati e si adorava il Sacramento della comunione tra tutti gli uomini della terra nel pezzo di pane spezzato per la salvezza dell’umanità.
Così “le opere e i giorni, i momenti della vita” erano ritmati fino alla metà del secolo scorso. L’attuale temperie culturale e il frenetico modus vivendi non consentono più simili pause di vita spirituale nel contemporaneo attendere agli obblighi domestici.
Ma se è illusorio pensare a un ritorno al passato, è certamente ragionevole non cedere alle mode del nostro tempo quando queste, nella logica propria di un consumismo esasperato, portano al nichilismo spirituale e all’inseguimento di fantasmi più o meno accattivanti, ma sempre, se si guarda bene, col virus alienante dello svuotamento dell’umano presente in ognuno di noi.
Rubrica a cura di Giuseppe Terregino