Tuccata di lupi o sollemnitatis gaudium?

E’ vero: fino alla bara sempre si impara. Così recita una vecchia massima. Ed io sono grato al destino (o a Chi lo governa) per essere vissuto abbastanza fino ad apprendere che il territorio di Gratteri fosse stato fino a qualche secolo fa popolato in qualche sua zona (nel bosco di San Giorgio per l’appunto) dall’animale più famoso della storia – si pensi alla fondazione di Roma – e della letteratura, ove, nella Divina Commedia (Inferno I, 97-99), è il simbolo dell’avidità insaziabile, che «ha natura sì malvagia e ria, / che mai non empie la bramosa voglia, / e dopo ‘l pasto ha più fame che pria». In qualche modo questa cattiveria è ammansita dal sommo simbolo della povertà, quando a Gubbio si lascia sedurre e rabbonire dal più mite degli esseri umani.

A quale razza appartenevano i lupi di San Giorgio? Forse non facevano male agli uomini, ma sterminavano le greggi. Salvo a fuggire appena udivano il rullare dei tamburi all’uopo accordati e percossi con un ritmo e una cadenza qui impossibile da rendere onomatopeicamente, mentre, invece, vengono magistralmente riprodotti dai tammurinara dello jovi dei mastri.

Costoro erano, nei tempi andati, gli apprendisti che i mastri grandi mandavano in giro per il paese di prima mattina, l’ultimo giorno dell’Ottava del Signore, ad annunciare che quella era la loro giornata, che in quel giorno si celebrava il lustro della maestranza. Una categoria sociale a metà strada tra i “don”, che però non potevano permettersi il lusso di allievi solidali nell’orgoglio della appartenenza, e la massa (da terzo o quarto stato) dei “su”, che andavano dai cosiddetti “burgisi” (coltivatori diretti), ai mezzadri, agli jurnatara (braccianti), nonché ai vestiamara (allevatori e garzoni).

In che senso e modo potesse conciliarsi la sagra della cacciata dei lupi con la festa del Signore, come veniva denominata senza altri attributi la solennità del Corpus Domini, non è facile da cogliere. Soprattutto se si tiene conto del fatto che i protagonisti della festa non erano i pastori, che qualche conto da saldare coi lupi proprio ce lo avevano e la tammurinata poteva essere un atto di omaggio al Signore per grazia ricevuta. Ma i mastri coi lupi avevano certamente poco a che fare.


Loro erano i borghigiani più alieni dalle pene e dalle afflizioni della vita dei campi, salvo qualche sortita nel proprio campicello avito per raccogliere la frutta o le olive nei tempi canonici. I lupi potevano vederli negli incubi notturni. E la tammurinata poteva essere un esorcismo contro una eventuale irruzione di essi in paese durante le tempeste di neve, che rendevano loro problematica la caccia nei boschi.

Ma siccome i cultori del folclore locale hanno inteso dare allo sciamare dei tamburini allo jovi dei mastri il carattere di rievocazione della “toccata dei lupi”, lasciamo che esso sia recepito e tramandato in questi termini. Ci resta però la nostalgia di quelle processioni dell’Ottava per i vari quartieri del paese, con largo sfarzo di corolle e petali seminati per le strade dai bambini della prima comunione e le benedizioni presso gli altarini addobbati agli angoli prestabiliti. In ciascun rione nel giorno proprio della categoria sociale che gestiva la cerimonia della giornata.

I mastri avevano il privilegio di curare la cerimonia di chiusura, così solenne come quella della data liturgica del Corpus Domini, con i mastri grandi, nel look più elegante, a sostenere le aste del baldacchino. La loro compostezza e il loro sussiego davano coloritura e tono assolutamente religioso alla manifestazione.

Pure nella mattinata, proprio durante la sfilata dei tammurinara, c’era un tocco di religiosità che allontanava dalla mente ogni lupercale reminiscenza. Proprio loro, infatti, si genuflettevano, uno dopo l’altro, al passaggio in fila indiana dinanzi alla porta della Chiesa Nuova, per rimarcare, appunto, che la loro esibizione avesse lo scopo di rendere l’omaggio dovuto al Santissimo Sacramento nel giorno assegnato alla propria categoria sociale.

Con tutto il santo orgoglio e la consapevolezza di chi sapeva di avere il compito di approntare nella bottega gli strumenti adatti all’agricoltura e alla pastorizia, oltre che di assicurare le migliori condizioni di vita al chiuso delle abitazioni. Si trattava, infatti, di allievi di fabbri, calzolai e muratori.

Questi ultimi avevano anche un ruolo sociale superiore, essendo affidata ad essi la cura del lato estetico, oltre che pratico, dell’abitare. Un compito, questo, di grande rilievo, perché comprendeva la conoscenza delle minime regole urbanistiche e architettoniche, veramente difficili da rispettarsi quando non c’erano le strutture di cemento armato a dare stabilità agli edifici e tutta la statica era affidata all’abilità di maneggiare la livella e il filo a piombo.

E bisognava sfidare la massima che recitava: u mastru è mastru, ma u patruni è u capumastru. Difficile da rispettare, ma impossibile da assecondare se si volevano evitare mostruosità e rischi e mai accettata dai mastri che sapevano il fatto loro e tenevano alla propria dignità deontologica.

In generale gli artigiani gratteresi tale senso della propria dignità certamente lo avevano, come testimonia il compianto professore Pasquale Culotta nel prezioso pamphlet ABITARE A GRATTERI del 1978. Ove si legge: «Dentro Gratteri le figure del luogo ci restituiscono, assieme ad una fitta tessitura di materiali, l’abitare e l’immaginazione degli uomini che ci vivono; ed anche la restituzione di una complessa e ricca costruzione, forse senza tempo, ma sapiente, eseguita dall’uomo attraverso le sue attività». Per cui, dirà nel seguito, dopo una descrizione dettagliata di tali figure: «Gratteri non è Isnello o Cefalù o nessun’altra città del mondo».

Che è come dire che i mastri gratteresi non costruivano a casaccio, ma nel rispetto di regole tecniche e modelli estetici che davano al complesso organicità e gli conferivano una peculiare e inconfondibile identità.

Un mondo artigiano, il nostro, che va tenuto presente pure quando la tendenza omologante del tempo presente porta ad appiattire tutto in una logica di consumismo volto a intercettare la curiosità dei forestieri verso il proprio passato.

Rubrica a cura di Giuseppe Terregino

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