Sul Crocifisso della chiesa del convento in Gratteri

La Chiesa del Convento non finisce di rivelare preziosità. Che fosse un punto di riferimento importante per varie ragioni, che vanno dalla storia alla cultura in ogni senso, sembrava un dato di fatto ormai acquisito.

La presenza in essa di un’opera d’arte di prestigio è invece una scoperta piuttosto recente se nella letteratura sui beni culturali gratteresi essa non figurava finora come manufatto di considerevole rilievo artistico.

La restaurazione per mano e per input di valenti operatori nel settore specifico della valorizzazione di beni siffatti impone una diversa attenzione verso il Crocifisso che vi si conserva, il quale ne diventa così anche l’ospite più rinomato.

Certamente, perché l’icona della salvezza deve avere la preminenza su ogni altra; con alta probabilità, poi, perché il suo valore artistico non è sfuggito a chi di arte, per professione e per intelligenza critica, ha sicura e riconosciuta competenza.


L’autore di questa riflessione, per il suo poco fondamento in materia, non è in grado di aggiungere o di togliere alcunché alle notazioni che la manifestazione programmata ad hoc farà emergere. Non può esimersi, però, da esternare il proprio compiacimento per la scoperta in sé, nonché da sentirsi coinvolto nell’atteggiamento di pietà che ogni gratterese deve avere per un manufatto che, per la materia della scultura (il legno) e per la forma realizzata dallo scultore, è un invito irresistibile a meditare sul senso e sul valore della propria fede.

La quale proprio sulla Croce fonda la sua ragione d’essere, in comunione col Figlio che nella sofferenza estrema glorifica il Padre, rivelandone l’identità amorosa. Tanto da potersi dire con San Paolo: «noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, …, potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini”(1 Cor. 1, 23-25).

Il volto del Crocifisso in argomento, proprio nella posizione in cui lo vide Giovanni, quando Gesù, «chinato il capo, rese lo spirito» (Gv, 19,30), ha tale serenità di espressione da rendere plausibile la predicazione paolina.

I segni della passione sono vistosamente rappresentati nel corpo in più punti oltraggiato e trafitto secondo la narrazione evangelica, mentre nell’espressione del viso è ravvisabile il raggiungimento di quella meta da Gesù stesso promessa al ladrone che stava alla sua destra. Vi si può leggere, infatti, la consapevolezza della vittoria sulla morte, che trasferisce allo spettatore la speranza del sicuro riscatto di ogni umanità calpestata e vilipesa.

Non saprei dare in questo momento (ma gli esperti ne sono certamente a conoscenza)la datazione esatta dell’opera. Non può sfuggire tuttavia l’appartenenza di essa a quella tradizione di scultura lignea propria della scuola francescana, che ha improntato di sé un ambito ben più vasto della Sicilia, dove si è espressa al massimo livello.

Le piaghe così vistosamente rappresentate sono un tratto proprio di quella cultura passionista che considera la immedesimazione nella sofferenza del Redentore come sicura via della salvezza. Colpiscono in particolare le rimarcate lividure ai polsi, in cui possono ravvisarsi gli esiti di una legatura molto stretta, con rustici legacci, dal momento dell’arresto fino alla imposizione del pesante legno della croce.

Come si vede, questo Crocifisso si presta a letture interessanti sotto profili diversi, da quello storico, certamente importante per cogliere l’aspetto sociologico della vita gratterese del tempo, a quello artistico, a quello religioso e finanche mistico.

Esso ha in sé una valenza culturale rilevante, di cui sembra esserci consapevolezza nei rappresentanti della Amministrazione civica e della quale è bene che venga resa consapevole la cittadinanza. Ed è questo l’auspicio di chi ha a cuore il prestigio del proprio luogo natale per ciò che veramente conta sul piano civile, spirituale e morale.

Rubrica a cura di Giuseppe Terregino

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