Apostulu dilettu
da Cristu tantu amatu
vi sia sinceru e gratu
u nostru amuri
Quando l’anima popolare si apre al trascendente con tale trasporto del cuore, la teologia ne deve prendere coscientemente atto. Non si tratta più, infatti, di un impulso dettato da paure ancestrali che cercano in una entità superiore protezione e speranze che diano senso al vivere: c’è invece la visione netta di un Dio che ha voluto condividere la condizione umana solo per amore.
Un amore che viene ricambiato dalla gente che lo vede incarnato nell’Apostolo amato dal Cristo, ossia dall’Unto per antonomasia, come vuole l’etimologia greca.
Ecco come ha sempre vissuto la gente di Gratteri la sua devozione a San Giacomo. Per nulla legata alle coreografie più o meno folcloristiche, essa ha vissuto la sua fede alla luce della speranza evangelica, che è certezza di felicità nella comunione mistica. Ieri come oggi.
Nell’inno in argomento, la protezione del Patrono non viene invocata, ma data per certa: «vui siti u prutitturi / di chista nostra terra; / di pesti fami e guerra/ liberati». Vi si invoca, invece, l’intercessione presso l’Altissimo per il perdono delle colpe, dopo la preghiera perché il Signore tenga lontano da questa gente l’infausto regno che l’immaginazione vuole alla sua sinistra : «E Diu pi nui priati / di teniri luntanu / a la sinistra manu so lu regnu. / Nte lu celesti Regnu / lu giudici sariti: / pirduni intercediti / a li nostri erruri». Quanta fede.
E che poesia in questi poveri versi. Una poesia resa proprio struggente da un motivo musicale così esaltato dal coro delle devote, da rimanerne coinvolti fin quasi alle lacrime.
Il seguito è un inno all’amore di Dio, del quale San Giacomo viene considerato interprete affidabile per essere stato scelto da Gesù come compagno fino al supremo sacrificio della crocifissione. Onde non v’è dubbio che di lui ci si possa fidare e viene spontaneo domandargli “cu summa cunfidenza” d’assisterci nell’ora della morte e “apriri poi li porti in Paradisu”.
Un discorso, questo, sul filo della più autentica dottrina cattolica, in cui la Misericordia del Signore è insieme fondamento della fede e arra della speranza.
Non meno suggestiva la conclusione, in cui traluce la brillantezza di una tradizione intessuta di amore e di sentita gratitudine, che si estrinseca nel “letu visu” con cui “ludamu cu firvuri / lu nostru prutitturi / eternamenti”.
Nella tradizione gratterese San Giacomo è visto solo come personaggio evangelico nella sua autenticità umana e religiosa: il figlio di Zebedeo, pescatore del “mare” della Galilea, che lascia la barca, le reti e ogni cosa per seguire Gesù nella sua missione salvifica; il discepolo generoso e talora irruento, tanto da meritare, assieme al fratello Giovanni, il soprannome di figliuolo del tuono; il primo degli apostoli a versare il suo sangue a testimonianza della sua fede.
Le coloriture fantastiche della ricorrenza festiva (a Gratteri per fortuna senza le forzature di altri luoghi) valgono solo a innescare la gioia della partecipazione comunitaria alla festa. Ma non intaccano più di tanto il fervore della devozione che ognuno si porta dentro. E l’inno che abbiamo fugacemente analizzato ne è la prova. Per questo noi lo riteniamo degno della maggiore considerazione tra le lodi devozionali.
Su questo punto è bene insistere, perché il valorizzare troppo l’esteriorità mondana di una celebrazione religiosa, qual è quella del santo patrono, può farla apparire solo un’occasione di svago, e non – come, invece, è giusto che sia – un momento di riflessione sul senso del vivere e sulle motivazioni dell’agire degli individui in una comunità.
La pietà popolare, quella autentica, diversa dal devozionismo ingenuo, per sua natura esposto alla probabilità di sfociare nella superstizione e nel fatalismo, è il fulcro attorno a cui ruota la vita sociale quando questa vuole essere vissuta all’insegna della solidarietà. “Non è bene – sostiene il Papa – ignorare la decisiva importanza che riveste una cultura segnata dalla fede, perché questa cultura evangelizzata, al di là dei suoi limiti, ha molte più risorse di una semplice somma di credenti posti dinanzi agli attacchi del secolarismo attuale”.
Dato che in essa ci sono i germi per una convivenza fondata sulla giustizia e regolata dalla solidarietà in virtù del comune sentire i valori delle fede, nonché vivificata da una sapienza di cui sarebbe ingiusto disconoscere la validità. Nel nostro caso è proprio l’inno in argomento il segno della fede da cui è informata la cultura popolare gratterese. Che proprio in esso trova l’espressione più tangibile della sua vena poetica.
In tale composizione, infatti, parole e musica si fondono in una perfetta armonia. E ciò perché il verso ha trovato qui una cadenza musicale appropriata, consona all’ispirazione poetica dell’anima.
Senza forzature e senza artifizi. Pur essendo la sua colonna musicale un motivo comune a laudi popolari consimili, l’inno si fa, nel nostro caso, veicolo di una sequenza di immagini che spontaneamente sgorgano dal cuore prima che la riflessione teologica ne sbiadisca la forza evocativa.
Ed è così che la pietà popolare tocca il vertice della poesia, parlando direttamente al cuore e trasmettendo una fede che pervade l’anima più d’ogni sapiente esposizione dottrinaria. Una fede che il mondo forse irride – come direbbe il Manzoni – ma che la prosaica sapienza umana non sa né cogliere né donare.
Rubrica a cura di Giuseppe Terregino