In margine alla processione della “A Sulità”

Aprile al Getsemani

Era di queste sere
al Getsemani
la voce che invocava:
“Padre passi
da me quel calice
di fiele”

Fredda la notte,
e attonita la luna,
di candida pienezza
tondeggiante,
vegliava sulla veglia
dello strazio.

Torpida la mesta compagnia,
solo nell’abbandono
l’Innocente
ansante trasudava
sangue ed acqua.

Sentiva già la folla
nel delirio
ebbra di peccato
e di violenza
gridare: “crucifige,
crucifige”.


Provava nello
spasimo dell’ora
il tremito supremo
del supplizio.

E sulle labbra smunte
soltanto una preghiera:
“Abba perdona”

(1984)

Giuseppe Terregino

Sia ben chiaro, innanzitutto, che non intendo elevare alcuna critica verso la sceneggiatura della Passione che viene fatta nel mio paese nel giorno clou del triduo pasquale. Anzi, apprezzo la buona volontà che viene messa in opera per accrescere la visibilità del nostro borgo nella gara che, grazie alla attuale potenza mediatica, è divenuta proprio coartante nel senso olimpionico sull’importanza del partecipare.

Nel nostro caso, però, c’è un dato che non si può oscurare: quello del lato nobile della pietà religiosa gratterese che si rifà alla immedesimazione col Cristo coronato di Spine, di cui ha dato testimonianza sul larga scala il più illustre, anche se oggi, coi tempi che corrono, potrebbe essere snobbato, dei figli di Gratteri.

Mi riferisco a quel Padre Sebastiano di cui vantiamo l’origine da Gratteri, perché ci sentiamo partecipi della sua eroica testimonianza riguardo alle virtù teologali e cardinali della dottrina cattolica, per le quali non c’è tra noi chi non lo ritenga meritevole di un grado più alto di quello riconosciutogli – come afferma il Passafiume – di Venerabile.

La sua visione del Cristo coronato di spine, della quale egli ha lasciato il ricordo in un quadro dipinto con le sue stesse mani, non è stata l’allucinazione di un esaltato, ma, quando non si vuole credere al miracolo di una apparizione reale, è stato il frutto di una profonda immedesimazione nella Passione di Nostro Signore, che egli viveva sul suo corpo alla maniera del confratello, San Padre Pio, che oggi veneriamo come santo.

Questo spirito di fede avrei voluto che non rimanesse oscurato nella sceneggiatura di cui si è detto. Per questo torno a trasmettere una mia povera meditazione in versi, in cui ho espresso come ho potuto (non sono, infatti, un poeta) il mio sentimento partecipativo al dramma che ancora oggi Gesù sta patendo nei cristiani perseguitati e, più ancora, massacrati per la loro fede. Sentivo e sento ancora il dovere di non voltare il capo da un’altra parte, ma di compatirli (nel senso etimologico del soffrire insieme) come certamente stava facendo, al quale era attuale allora la realtà a noi attuale oggi, Nostro Signore proprio lì nell’orto del Getsemani.

Per questo mi è sembrato insufficiente (come forse anche ad altri) limitarsi a esporre una sfilata processionale, con connotazione folcloristica, non espressamente volta a suscitare il coinvolgimento interiore negli astanti, fuorviati anche dalla didascalia della scena, che attribuiva al modo di procedere dei confratelli la ragione prima dello spettacolo e non già alla solitudine della Madre Addolorata lasciata sola nel momento estremo del supplizio del figlio, quando si stava avverando la profezia di Simeone (Lc, 2, 35). Solitudine, questa, che è il motivo principale della devozione spagnola quando i fedeli celebrano la Madonna col titolo di “Soledad”.

E non si può dire che noi non possiamo farci nulla se il martirio di Cristo continua nei fedeli perseguitati. Perché la persecuzione è forse causata da quell’indifferenza globalizzata su cui sovente insiste Papa Francesco. Il quale, quando rimprovera al mondo della gente che comanda nei fatti di aver girato il volto dall’altra parte della sofferenza dell’umanità, non vuole incitare alla guerra, ma richiamare il popolo di Dio (qual è oggi il titolo della Chiesa) a non ignorare, come fosse cosa del passato da mettere in archivio o roba da museo del folclore da ostentare all’occorrenza, la Passione ma ad entrare in empatia col Cristo sofferente, che non è lontano, come potrebbe essere un filantropo del passato, ma vicino, vivo e presente in ogni uomo che soffre sulla faccia della Terra.

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