Nella rassegna dei vescovi di Cefalù stilata da fra’ Benedetto Passafiume (v. De origine ecclesiae cephaleditanae, Venezia 1645) è citato un caso che fa cadere un’ombra sul paese di Gratteri. Il caso è quello del vescovo Nicolò de Burellis (vescovo della diocesi dal 1353 al 1359), del quale mons. Giuseppe Misuraca, nella Serie dei vescovi di Cefalù, sottolinea che fu «uomo di santa vita e di grande rettitudine. Per aver difeso i diritti della sua chiesa contro il Barone di Gratteri, che voleva usurpare il feudo della Roccella, fu cacciato dal suo Palazzo e chiuso nella prigione di Gratteri, dove morì il 1359 in fama di santità».
La triste vicenda è così narrata dal Passafiume nel citato volume – donde l’ha attinta il Misuraca – alla pagina 68: «Nicolò, uomo molto pio e in fama di santità, fu assunto alla chiesa di Cefalù sotto il sommo pontefice Innocenzo VI, ed essa egli guidò con straordinario zelo, come dimostra il fatto che ne fu acerrimo difensore e per lei ebbe a subire diverse traversie, specialmente perché non volle acconsentire alla alienazione della Roccella e per questo, vessato da afflizioni nelle carceri fuori di Cefalù, dopo un irreprensibile ministero pastorale si addormentò nel sonno di una santa morte. Ma ritrovato genuflesso con la faccia rivolta verso il cielo, venne trasferito e sepolto presso il seggio vescovile nel coro della cattedrale, dove rimase fino al 1642, quando il vescovo Corsetto curò che fossero esumate le ossa del suo scheletro, che fece conservare nella sacrestia. (Nicolò) resse la Chiesa, munendola di santissimi esempi per 17 anni».
Dopo la lettura del precedente passo, un gratterese si pone la domanda sulla fede dei propri antenati. Ma questi non c’entrano per nulla nella vicenda che abbiamo narrato. Essa è stata una bega, con finale tragico, fra il feudatario del luogo, Francesco II dei Ventimiglia, e il vescovo di Cefalù, la cui colpa era solo quella di difendere il patrimonio della sua chiesa di provenienza regia. Allora, sotto il regno di Federico III di Aragona (1355-1377), “i baroni – come dice Jean Huré (Storia della Sicilia, ED.RI.SI, Palermo 1982, p.90) – erano i padroni dell’isola. …
Il popolo sprofondava nella miseria e l’Isola nell’anarchia feudale”. La Sicilia era straziata soprattutto “dalla sanguinosa rivalità tra le grandi famiglie, i Palizzi, i Ventimiglia, i Chiaramonte, gli Alagna”. Non contava neppure il re. Pensiamo un po’ se potevano contare i poveri sudditi di questi grandi e potentissimi feudatari che su di essi avevano diritto di vita e di morte.
Il barone che spadroneggiava a Gratteri era Francesco II Ventimiglia. Egli, oltre che barone di Gratteri, Conte di Collesano e sesto conte di Geraci, dopo la morte del fratello Emanuele che di questa contea era stato, come primogenito di Francesco I, il titolare, era anche Gran Camerario del Regno di Sicilia e sarebbe diventato Vicario del Regno medesimo nel 1377.
La povera gente di Gratteri non c’entra per nulla nella vicenda criminale dell’assassinio del vescovo. Era, invece, di certo presente quando – come dice mons. Misuraca nel luogo citato – «il suo corpo venne trasportato con grande concorso di popolo nella cattedrale di Cefalù e sepolto sotto il solio vescovile, con l’indicazione di una semplice croce di porfido».
Purtroppo chi conduce il carro della storia non può o non vuole avere scrupoli umanitari: la conquista e il mantenimento del potere si fondano sulla categoria del cinismo. Quando si insedia un regime di governo, questo tende sempre a consolidarsi per durare il più a lungo possibile e a tal fine utilizza il suo potere, senza scrupoli di sorta.
Non fa eccezione il regime feudale, che si instaura in Sicilia nel XIV secolo e, favorito dalla debolezza del regno dei successori di Federico d’Aragona, si rafforza surrogando lo stesso potere regio e dura fino al secolo XIX con strascichi di mentalità fino ai nostri giorni. «È questo – dice ancora lo Huré – il grande dramma della storia della Sicilia, uno dei drammi della storia dell’Italia moderna; nel momento stesso in cui si assisteva nell’Italia del Nord alla liquidazione del regime feudale, la Sicilia e tutto il Sud vi si sistemavano per secoli».
Evidentemente le storture dei regimi non vanno trasferite ipso facto su tutti gli individui che ne hanno detenuto il potere. Pure nel regime feudale – e noi ne abbiamo avuto qualche esempio pure a Gratteri – si incontrano personalità positive sotto l’aspetto dell’esercizio di esso.
Precisato questo, va ribadito che non è certo giustificabile quella prepotenza di cui è stato incolpevole vittima il vescovo de Burellis. Ragione per cui per i gratteresi il carcere del castello dei Ventimiglia, benché ormai ridotto a una realtà del tutto virtuale, deve avere anche il significato di monito contro il dispotismo del potere, che non giudica e condanna secondo giustizia, ma soprattutto in funzione del tornaconto di chi comanda.
Rubrica a cura di Giuseppe Terregino