Il barone che amò Gratteri e la sua gente

Alla pagina 14 del libro Le pecore e il pastore (edito da Sellerio) Andrea Camilleri cita Gaetano Ventimiglia col titolo di “conte di Collesano” e ne parla come del “novo proprietario” che si “attribuì il merito” della costruzione di un capace convento nel feudo della Quisquina a fianco della grotta che era stata riconosciuta come la residenza eremitica di santa Rosalia; che ivi si era rifugiata trovando – dice lo scrittore – «il posto ideale per preghiere, contemplazioni e macerazioni senza aviri un’anima criata torno torno».

Il luogo era noto alla giovane perché essa era figlia del feudatario Sinibaldo, signore della Qusquina e del monte delle Rose.

Molto simpatico il racconto del Camilleri, anche per quel linguaggio infarcito di sicilianismi, che accrescono la vivacità della espressione e danno al racconto una attrattiva particolare. Ma questo c’entra poco con la sottolineatura che intendiamo fare. Perché è lontano da noi ogni intento critico sulla qualità del testo come sul contenuto del libro, in cui la citazione sopra riportata è soltanto un passaggio del tutto fugace e senza impegno.

Ci dispiace, però, che siano stati sottaciuti i titoli e i meriti di don Gaetano, anche perché egli è l’unico dei baroni Ventimiglia sepolto a Gratteri, vicino alla nonna Maria Filangeri, dopo la fine del XVI secolo. Con l’onore di un proprio monumento sepolcrale, dove, in ben due lapidi abbastanza dettagliate, sono esaltate le sue virtù e ne è rimarcato il legame forte con la terra di Gratteri.


Come si evince dagli epitaffi incisi nelle lapidi stesse, che si trovano nella Matrice vecchia e qui sotto vengono riportati nella traduzione (letterale) in lingua italiana. Esse sono un punto di riferimento irrinunciabile per i cultori di storia patria del circondario delle Madonie. Soprattutto perché i baroni di Gratteri dopo la elevazione al rango di principi ebbero un ruolo importante nella cerchia dei notabili del regno.

D. O. M
La morte non calò nella terra (seppellì) qui, ma innalzò Gaetano
Ventimiglia Principe di Belmonte, di Gratteri, di Lascari
e di S. Stefano: infatti, mentre essa prese la sua spoglia mortale, i suoi titoli di gloria
spiccarono: qui la fama dei suoi (buoni) costumi parla, l’integrità e la prudenza declamano,
la affabilità, la generosità, la mitezza e la equanimità brillano.
Ohimè, voi poveri avete perduto un mecenate. Il fratello di lui Don Pietro Ventimiglia,
constatando le opere di così straordinario congiunto, curò che fossero impresse nel marmo
nell’anno del Signore 1744

D. O. M

Don Gaetano di Ventimiglia e d’Afflitto,
principe di Belmonte, barone di Gratteri e di S. Stefano,
dopo una vita di assoluto celibato, durante la quale tuttavia al posto dei figli
ebbe molto cari i poveri e i bisognosi, che a proprie spese
sostenne con somma generosità, giunse alla fine dei suoi giorni,
il 23 luglio 1724 a 62 anni di età,
e qui le spoglie della sua vita mortale
egli volle che fossero composte;
ai suoi sudditi, per i quali innanzitutto visse,
perenne memoria del suo paterno amore.

Come si vede, tra i titoli di don Gaetano manca solo quello attribuitogli da Camilleri, quello di conte di Collesano, che – come è stato detto altre volte – era un titolo in qualche misura abusato, a cui i Ventimiglia di Gratteri facevano riferimento per rimarcare la loro discendenza proprio dalla contea collesanese.

Mentre si tacciono gli altri e più qualificanti titoli, tra cui il più prestigioso di principe di Belmonte e il più significativo di Barone di Santo Stefano Quisquina. Titolo, questo, ereditato per successione in linea diretta dal bisnonno Pietro II, il quale a sua volta lo aveva ricevuto dalla madre Maria ( o Elisabetta) de Ruiz e Sanchez, baronessa appunto di Santo Stefano, condotta in sposa dal padre Carlo I.

Non si trattava quindi solo del “novo proprietario del feudo” che veniva ad attribuirsi il merito della costruzione della chiesa e del convento fatti edificare nel 1690 da quello che Camilleri indica come «un commerciante riccone di Genova, Francesco Scassi (o Scasso),pigliato da una botta di misticismo», ma del signore del luogo, legittimamente tale secondo il diritto feudale allora vigente, senza il cui benestare l’opera non avrebbe potuto avere compimento.

Per non dire che gli storici locali gli attribuiscono il merito di avere contribuito anche finanziariamente alla più decorosa sistemazione del santuario eremitico. Notizia, questa, riportata uniformemente nelle note storiche sul luogo rintracciabili in internet, ove è dato di leggere che «nel 1693 Francesco Scasso con l’aiuto del principe Ventimiglia e di una sottoscrizione popolare, costruì una chiesa due volte più grande di quella precedente e ampliò il romitorio aggiungendo altre cellette, la cucina, il refettorio, il magazzino e le stalle».

Dopo questa precisazione, quale altro interesse può avere il sostare sul dato storico in argomento. Non certo una rivalutazione del nostro barone; dato che per quel che di personale ebbe a metterci nel quadro di un sistema di governo qual era quello feudale, il suo apporto fu certamente positivo. E si concretò in opere di un certo valore, quale, per citare il caso più vicino a noi, la fondazione di Lascari, che ebbe anche a dotare della chiesa parrocchiale.

Non si può, inoltre, non tenere conto dello stile di vita veramente esemplare decantato negli epitaffi trascritti sopra. I quali possono essere troppo enfatici, ma certamente non altrettanto lontani dalla verità. Un personaggio del genere, non meraviglia che abbia avuto il desiderio, che nel suo status poteva permettersi, di eternare in “una lapide che fece murare nella chiesa” il proprio merito di aver dato il placet per un’opera legata al nome di una santa della quale era grande culto che riceveva allora e che ancora le viene tributato.

Santa Rosalia (1128-1165), infatti, è, con le vergini martiri sant’Agata e santa Lucia, quella santa che raccoglie la devozione più vasta della popolazione siciliana. Ecco perché il contributo di don Gaetano all’edificazione di un santuario in suo onore appaga un po’ anche l’orgoglio campanilistico del gratterese. Un orgoglio bene accetto anche da chi non crede ai miracoli e snobba la fede ingenua della gente comune. Dato che, nel nostro caso, contribuisce ad esaltare una tradizione (quella nostra) nobilitata dalla presenza, nel paese e nel territorio attorno, di alcuni segni di primaria importanza sotto il profilo della fede religiosa. Alla quale sono connessi valori umani di cui non è giusto che si perda la memoria. Pena, altrimenti, il degrado della cultura paesana connesso all’edonismo consumistico spinto fino all’estremo della negazione di ogni valore spirituale.

In tale ottica, tolto l’epiteto di sudditi nel senso feudale del termine e a prescindere da ogni considerazione di tipo sociologico sul feudalesimo, diventa quasi doveroso guardare alle spoglie di don Gaetano Ventimiglia col rispetto che si deve alla dichiarazione del suo “paterno amore”.

Rubrica a cura di Giuseppe Terregino

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