Ammucciateddu ‘ntra muntagni e sciari
Ammucciateddu ‘ntra muntagni e sciari
c’è lu paisi di mè patri, anticu…
è Saracinu e lu casteddu appari
d’unni ‘mpittò a so’ tempu lu ‘nnimicu.
Di lu stratuni ‘na casuzza un pari:
comu si trasi pari nicu nicu;
com’un vintagghiu, dòmina lu mari
e Santu Milianu scinni a picu.
E cc’è la paci santa e l’armunia
di la natura bona e cc’è l’amuri,
e cc’è San Ghiavucuzzu chi talia
sta genti chi cù stentu e cù duluri…
curri ogni ghiornu all’antu, a la campìa,
e lu panuzzu vagna di suduri!
Giuseppe Ganci Battaglia
Dire che quello sopra riportato è uno dei più bei sonetti della poesia siciliana, mi pare fin troppo ovvio. Dove si può trovare, infatti, una composizione poetica così perfetta nel ritmo, nella musicalità, nella sequenza di endecasillabi scorrevoli e senza la minima forzatura di licenze poetiche, se non nelle composizioni classiche in lingua italiana?
Non così frequentemente nel dialetto siciliano, che riesce a stento ad essere una lingua letteraria. Il fatto è che il Commendatore Ganci era poeta vero, di vena naturalmente limpida e di ispirazione spontanea. Il suo sentimento di amore per Gratteri non aveva certamente bisogno di altro per sciogliersi in canto disteso e immaginifico come quello che abbiamo qui richiamato.
Le montagne, le sciare, i ruderi del castello vivevano dentro di lui come compagni del suo andare eretto per le vie del paese accanto all’amico inseparabile mastro Ciccino Carò, col quale faceva la solita passeggiata verso lo stradale.
Quale immagine più bella del paesetto di quella che lo raffigura come un ventaglio, che richiama l’anfiteatro classico, a fronte dell’immensità marina sottostante? “E Santu Milianu” che “scinni a picu” completa l’idea di quella posizione dominante annunciata nel “domina lu mari”.
“C’è la paci santa e l’armunia”. Quella che il Commendatore veniva a godersi lontano dal caotico traffico palermitano. Insieme alla sua simpatica famiglia, come lui e quanto lui affabile e cordiale con tutti.
“San Ghiavicuzzu” non è citato solo per dovere di cronaca, essendo egli il protettore del borgo. Ma perché viveva nel suo cuore di devoto che ne seguiva puntualmente le sortite processionali tra quella gente che con stento e con dolore “curri ogni ghiornu all’antu, a la campia / e lu panuzzu vagna di suduri!”. Ove mi sembra di cogliere una immedesimazione totale con la gente più umile del nostro paese, che era forse la ragione prima del suo immancabile ritorno estivo alla terra degli avi.
Questa gente, infatti, egli amava e gratificava con la sua presenza mai scostante e boriosa. Non so se volontariamente, ma certo così la ripagava, accostandola con intensa empatia, della secolare servitù feudale.
Non vorrei aggiungere altro, perché mi sembra di avere implicitamente fatto intuire se non l’altezza della statura del poeta, per altro abbastanza noto e riconosciuto nel panorama della poesia siciliana contemporanea, almeno l’animus del gratterese verace, oltre che il lustro del compaesano che merita di entrare nel novero delle personalità memorabili.
Giuseppe Terregino